Il personaggio creato da Burroughs fa parte della ristretta cerchia dei grandi codici offerti dalla letteratura e poi accolti dal cinema. Di Pino Farinotti.
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Il prossimo 14 luglio arriverà nelle sale italiane The Legend of Tarzan, l'ennesimo titolo sulla saga dell'eroe che si deve alla penna di Edgar Rice Burroughs. A dare corpo e volto all'uomo scimmia è Alexander Skarsgard, figlio di Stellan, l'attore prediletto da Lars von Trier. Il regista è David Yates, britannico, che ha firmato quattro Harry Potter.
Penso anche ai Tre moschettieri, l'espressione dell'avventura più bella e ingenua. E penso ad Anna Karenina, la donna che "va dove la porta il cuore" e ne paga un prezzo altissimo. Sono tutti personaggi, e simboli, ai quali il cinema, appunto, ha attinto a piene mani, e sempre con successo. Sono centinaia i titoli nei decenni, secondo le generazioni. E tutti accolti nel profondo, come un'antropologia evocata dalla memoria e dalla coscienza.
Credo che, in termini di numeri e di diverse proposte, Tarzan sia il modello assoluto. Nel film di Yates tutta la parte raccontata mille volte del bambino che cresce nella giungla per poi essere condotto nella società civile è superata.
Burroughs pubblicò il libro nel 1912. Si racconta di lord John Clayton Greystoke, funzionario delle colonie, e di sua moglie Alice che si ritrovano abbandonati in Angola per l'ammutinamento dell'equipaggio della loro goletta. Vengono sopraffatti dalle scimmie, sopravvive il loro bambino che viene adottato dal capobranco. Tarzan cresce nella foresta, diventa il capo delle scimmie, le guida e le protegge. Poi arrivano i bianchi, con loro Jane, che si innamora del lord selvaggio. Vive la loro storia, ci sono avventure e pericoli. Alla fine Jane conduce Tarzan in America. Ma al momento decisivo, quello di decidere per la vita, la donna sceglie di sposare un suo pari. Non ha avuto il coraggio per la scelta definitiva. E qui interviene il cinema,che vuole l'happy end. E così abbiamo visto Tarzan, cento volte, andarsene felice, alla fine, mano nella mano con la sua Jane.
Tarzan è stato assediato dal cinema, senza soluzione di continuità e senza pietà. Il primo titolo è un "muto" del 1918 Tarzan of the Apes di Scott Sidney, con Elmo Lincoln.
Dunque nel mare immenso del mondo di Tarzan, costretto a una selezione improba, parto dall'olimpionico del nuoto che poi fece Tarzan. János Weismüller nacque nel 1904 nei pressi di Timisoara, Romania. Un anno dopo la famiglia era già a Windber, Pennsylvania. Da quel momento, come vuole la liturgia di molti grandi personaggi, ci sono tutti i lavori possibili, fattorino, addetto all'ascensore, minatore e così via. Poi arriva la piscina, il nuoto e quel destino. Alle Olimpiadi di Parigi del 1924 vince tre medaglie d'oro. Si ripeterà quattro anni dopo ad Amsterdam. Un fenomeno, un eroe. Ma c'è qualcosa di più, è "l'uomo più bello del mondo", secondo i concorsi e i sondaggi che tanto amano gli americani. È dunque inevitabile che il cinema lo noti. Approda alla Metro e a ... Tarzan. Sarà il protagonista, nel 1932, del primo della serie "parlata". Farà dieci "Tarzan". L'ultimo nel 1946, a 42 anni, ormai lento e appesantito, e il regista sarà costretto, in montaggio, ad accelerare le bracciate.
Se devo richiamare un'unica, perfetta sequenza, dalla magica vicenda di Tarzan, è quella dove nuota sott'acqua e con la sua Jane, la stupenda Maureen O'Sullivan. Lui mulina le sue bracciate armoniche, lei è attaccata ai suoi piedi e muove all'unisono le gambe, come una sirena. Per la Metro Weissmuller fu una miniera d'oro. E per il popolo del cinema un sogno da toccare. E non è difficile comprenderne la ragione: Tarzan rappresenta il ritorno al paradiso perduto, alla purezza primitiva ed ecologica, a fronte del degrado generale, morale e fisico che ci sta attorno. Un deterrente felice e utile e tutti, perché non richiamarlo ciclicamente?