Uno struggente documentario antropologico travestito da commedia nostalgica per un regista che continua a sfuggire alle tassonomie ufficiali.
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Bisogna cominciare a chiedersi se Richard Linklater non debba essere considerato a tutti gli effetti uno dei maggiori cineasti americani viventi. La sua lunga militanza autarchica e l'attitudine poco propensa al grandioso, la filmografia sussultoria e inconsueta, gli esperimenti sempre fuori asse rispetto alle mode del momento (culminate con il film della vita, e di una vita, Boyhood) non gli hanno meritato la dedizione totalizzante della cinefilia.
Un po' come se si fosse trovato nella terra di nessuno, Linklater ha continuato a lavorare a contatto con Hollywood attraverso le porte girevoli del cinema indipendente. Eppure, a riguardare oggi la sua intera filmografia, segnata in modo inequivocabile dall'ossessione del tempo e dalle fasi dell'esistenza, si scopre che abbiamo a disposizione un vero tesoro cinematografico, nonché probabilmente un lungo trattato a tappe sull'identità americana, sospesa tra cultura popolare e forme di genere della narrazione.
Mossa fondamentale dal punto di vista simbolico, da parte del regista, è quella di aver spostato topograficamente il luogo primario dei film universitari (il campus) ai suoi margini, nell'appartamento a due piani dove il gruppo di giocatori di baseball passa i tre giorni precedenti alle prime lezioni. Non si tratta solo di una scelta ad alto tasso meta-cinematografico (il campus è Hollywood, il fuori campus è Linklater), ma di una presa di libertà che garantisce uno spazio di manovra straordinario. C'è di più: Linklater, pur essendo figlio del movimento indipendente e un po' grunge dei primi anni Novanta, e dunque abituato all'attitudine post-punk del fare cinema con i mezzi che si hanno, recepisce del classico americano una tendenza naturale a rispettare i personaggi, la narrazione, la concretezza.
Nei suoi film non si trovano lunghe contemplazioni della natura o degli oggetti, né piani sequenza ossessivi, né sperimentazioni cinéphile di destrutturazione del racconto, persino nelle opere più oniriche e psicotropiche (come Waking Life e A Scanner Darkly). Anzi, con il tempo, la sua forma di racconto si è depurata con limpida perfezione, e Tutti vogliono qualcosa è un tipo di film che al momento in America non esiste: come un Porky's girato da Frederick Wiseman, un film di Rohmer ambientato nei college texani, un documentario antropologico travestito da commedia nostalgica, dove il 1980 è incaricato di farsi cartina di tornasole di come eravamo e di come siamo diventati.
Tra le molte qualità del film, c'è anche quella di costituire un ironico, commosso, lucido e affettuoso studio sulla mascolinità americana.
Il maschio americano del 1980, nel suo affermare la mascolinità in modi oggi percepiti come contraddittori (tanto è vero che il look di gran parte dei protagonisti maniacalmente eterosessuali riconduce a un immaginario omoerotico), è al tempo stesso erede dei Settanta ma non ancora instradato dal reaganismo yuppie che di lì a poco avrebbe portato le prime trasformazioni alla società capitalista. Anche per la storia del cinema, la convivenza di stili tra passato e presente è nota: nel 1979 esce il canto funebre della nuova Hollywood (Apocalypse Now), e dietro l'angolo, pochi mesi dopo, c'è American Gigolo che impone nuove immagini, nuovi divi, nuove mode, nuova musica - dai Doors di Coppola alle Blondie di Schrader.
E la musica, usata per una volta in maniera chirurgica senza l'effetto vintage di tanti film ambientati nei mitici decenni del passato, è un altro elemento riuscito di Tutti vogliono qualcosa, col suo mix di generi in movimento, dei quali i personaggi maschili sembrano poco consapevoli se non per il dress code necessario a trasferirsi di festa in festa (dalla disco al country al punk, e così via).
Insomma, Tutti vogliono qualcosa è un capolavoro, che lascia però l'amara sensazione che molti rischino di non accorgersene, per un film che non si sa dove collocare e per un regista che continua a sfuggire alle tassonomie ufficiali.