TUTTI VOGLIONO QUALCOSA, CAPOLAVORO DIFFICILE DA COLLOCARE

Uno struggente documentario antropologico travestito da commedia nostalgica per un regista che continua a sfuggire alle tassonomie ufficiali.

Roy Menarini, lunedì 20 giugno 2016 - Focus

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"Tutti vogliono qualcosa è un tipo di film che al momento in America non esiste: come un Porky's girato da Frederic Wiseman, un film di Rohmer ambientato nei college texani".

Bisogna cominciare a chiedersi se Richard Linklater non debba essere considerato a tutti gli effetti uno dei maggiori cineasti americani viventi. La sua lunga militanza autarchica e l'attitudine poco propensa al grandioso, la filmografia sussultoria e inconsueta, gli esperimenti sempre fuori asse rispetto alle mode del momento (culminate con il film della vita, e di una vita, Boyhood) non gli hanno meritato la dedizione totalizzante della cinefilia.
Un po' come se si fosse trovato nella terra di nessuno, Linklater ha continuato a lavorare a contatto con Hollywood attraverso le porte girevoli del cinema indipendente. Eppure, a riguardare oggi la sua intera filmografia, segnata in modo inequivocabile dall'ossessione del tempo e dalle fasi dell'esistenza, si scopre che abbiamo a disposizione un vero tesoro cinematografico, nonché probabilmente un lungo trattato a tappe sull'identità americana, sospesa tra cultura popolare e forme di genere della narrazione.

Questo struggente e straordinario Tutti vogliono qualcosa somiglia a tutto tranne che a un college movie.
Roy Menarini

Mossa fondamentale dal punto di vista simbolico, da parte del regista, è quella di aver spostato topograficamente il luogo primario dei film universitari (il campus) ai suoi margini, nell'appartamento a due piani dove il gruppo di giocatori di baseball passa i tre giorni precedenti alle prime lezioni. Non si tratta solo di una scelta ad alto tasso meta-cinematografico (il campus è Hollywood, il fuori campus è Linklater), ma di una presa di libertà che garantisce uno spazio di manovra straordinario. C'è di più: Linklater, pur essendo figlio del movimento indipendente e un po' grunge dei primi anni Novanta, e dunque abituato all'attitudine post-punk del fare cinema con i mezzi che si hanno, recepisce del classico americano una tendenza naturale a rispettare i personaggi, la narrazione, la concretezza.

Nei suoi film non si trovano lunghe contemplazioni della natura o degli oggetti, né piani sequenza ossessivi, né sperimentazioni cinéphile di destrutturazione del racconto, persino nelle opere più oniriche e psicotropiche (come Waking Life e A Scanner Darkly). Anzi, con il tempo, la sua forma di racconto si è depurata con limpida perfezione, e Tutti vogliono qualcosa è un tipo di film che al momento in America non esiste: come un Porky's girato da Frederick Wiseman, un film di Rohmer ambientato nei college texani, un documentario antropologico travestito da commedia nostalgica, dove il 1980 è incaricato di farsi cartina di tornasole di come eravamo e di come siamo diventati.

Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa, dal 16 giugno al cinema.
Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa, dal 16 giugno al cinema.
Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa, dal 16 giugno al cinema.

Tra le molte qualità del film, c'è anche quella di costituire un ironico, commosso, lucido e affettuoso studio sulla mascolinità americana.

Attraverso le varie fasi dei tre giorni in oggetto, Linklater - senza sottolineature sociologiche - ci conduce all'interno della tribù degli all american boys facendoci capire quanta varietà si celi nel branco, quante sensibilità geografiche, politiche e personali si incontrino in quel preciso istante, cementate infine dallo sport, dalla ricerca delle ragazze e dalla comunità universitaria.
Roy Menarini

Il maschio americano del 1980, nel suo affermare la mascolinità in modi oggi percepiti come contraddittori (tanto è vero che il look di gran parte dei protagonisti maniacalmente eterosessuali riconduce a un immaginario omoerotico), è al tempo stesso erede dei Settanta ma non ancora instradato dal reaganismo yuppie che di lì a poco avrebbe portato le prime trasformazioni alla società capitalista. Anche per la storia del cinema, la convivenza di stili tra passato e presente è nota: nel 1979 esce il canto funebre della nuova Hollywood (Apocalypse Now), e dietro l'angolo, pochi mesi dopo, c'è American Gigolo che impone nuove immagini, nuovi divi, nuove mode, nuova musica - dai Doors di Coppola alle Blondie di Schrader.
E la musica, usata per una volta in maniera chirurgica senza l'effetto vintage di tanti film ambientati nei mitici decenni del passato, è un altro elemento riuscito di Tutti vogliono qualcosa, col suo mix di generi in movimento, dei quali i personaggi maschili sembrano poco consapevoli se non per il dress code necessario a trasferirsi di festa in festa (dalla disco al country al punk, e così via).
Insomma, Tutti vogliono qualcosa è un capolavoro, che lascia però l'amara sensazione che molti rischino di non accorgersene, per un film che non si sa dove collocare e per un regista che continua a sfuggire alle tassonomie ufficiali.

Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa.
Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa.
Un'immagine tratta dal film di Richard Linklater Tutti vogliono qualcosa.
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