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Mentre in alcune città europee gli eventi organizzati - dai fan e dai vari uffici marketing - per la nuova stagione di Orange is the New Black hanno confermato una febbre d'attesa d'altri tempi, la produzione non è che si sia sbilanciata più di tanto in quanto ad anticipazioni. Fatto sta che dopo la quarta serie, da oggi su Netflix, ne sono previste indicativamente altre tre per un totale di sette anni televisivi che vanno a dilatare di un bel po' quell'unico anno in prigione a cui rimanda il titolo del libro della vera Piper Kerman.
A rivelarlo, qualche tempo fa, è stata la stessa Taylor Schilling che, parlando della sua Piper, ha fatto riferimento ad una nuova consapevolezza, ad un ritrovato coraggio, forse connesso anche alla rottura del legame con Alex. Chi sia Alex, che ha fatto il nome di Piper durante un processo causandone l'arresto dopo dieci anni da un reato compiuto solo per amore, non è certo un segreto per i fan della serie.
Nuova stagione, nuove detenute ovviamente. Al penitenziario di Litchfield, carcere femminile gestito dal Dipartimento Federale di Correzione, finora ne sono arrivate un po' di tutti i colori e le nazionalità, ma la quarta serie promette di stupire con un carico di nuovi personaggi finora intentato. Davvero difficile mantenere gli equilibri a malapena stabilitisi negli ultimi episodi della terza serie, ancora di più se - è sufficiente dare un'occhiata ai sibillini trailer rilasciati col contagocce - consideriamo quella nuova girandola di tratti somatici e corporazioni razziali a cui hanno voluto dare spazio gli autori.
Aggiungete alle guardie carcerarie poco esperte il solito meltin' pot delinquenziale di prim'ordine e otterrete quello scontro di civiltà e storie sociali che, serpeggiando già dalle prime puntate, s'è fatto gradualmente sempre più cuore del tutto. L'ordine, dopotutto, c'è davvero, sia davanti sia dietro le sbarre. Peccato che sia tutto orientato alla sopraffazione, alla conquista di un controllo, quello sì davvero organizzato e regolato da un codice dettagliatissimo, per i traffici interni, per il comando di tutto ciò che accade tra brandine a castello, cucine fumose e parlatori.
Ideatrice di una serie nata per raccontare - semplicemente? - la vita dentro ad un penitenziario femminile, Jenji Kohan continua ad alzare l'asticella tematica di quel microcosmo a tenuta stagna che, dalla prima stagione, intende come un vero e proprio specchio del mondo fuori.
La deflagrazione di tensioni anche economiche porterà ad una guerra culturale esplosiva, le cui armi saranno ancora la sessualità, l'appartenenza ad una classe sociale, la razza e, certamente non ultima, la complessità di un genere femminile messo in gioco in una situazione in continuo bilico tra vita dentro e fuori le sbarre.