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Fury, la guerra di Pitt: qualcosa di personale

ONDA&FUORIONDA di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto Brad Pitt in una scena del film Fury di David Ayer.
Brad Pitt (William Bradley Pitt) (60 anni) 18 dicembre 1963, Shawnee (Oklahoma - USA) - Sagittario. Interpreta Wardaddy nel film di David Ayer Fury.

lunedì 8 giugno 2015 - Focus

Il tank Fury, comandato dal sergente Brad Pitt, è sopravvissuto all'Africa, alla Normandia, ha attraversato la Francia, entrato in Germania e punta su Berlino. Il carro è un mezzo superato dagli omologhi tedeschi, ma il comandante compensa col coraggio, la competenza e la fede. E con la violenza. Abbiamo visto molti film su quella guerra, con gli alleati infinitamente più valorosi, organizzati, "cavallereschi" del nemico. Hollywood voleva rimandare quell'indicazione, soprattutto nei titoli prodotti negli anni della guerra. Propaganda. Più volte, dalla Germania arrivavano reazioni e rimbrotti: "se fossimo stati così stupidi e maldestri non avremmo fatto paura al mondo." Ma tant'è. Era il cinema e il cinema ha tutti i diritti alle licenze, anche pesanti, grottesche, come quella di Tarantino che fa morire Hitler in un teatro. Fury, film e tank, è anche qualcosa di formazione. Il giovanissimo militare che deve sostituire il mitragliere morto, che non ha mai usato un'arma, si ritrova in un girone dell'inferno e deve affrontare il salto di qualità, imparare a sopravvivere, a combattere, ad essere crudele. Glielo insegna il capo. E qui cambia il cinema. Non più gli americani buoni e giusti, non più codici cavallereschi o convenzione di Ginevra. Si uccide e basta. I tedeschi si arrendono alzando le mani, è meglio falciarli, e quando sono a terra morti meglio un'altra raffica per sicurezza. Così non si perde tempo a organizzare la prigionia, si va avanti veloci. E poi si agisce come il nemico, che certo non fa prigionieri. Il tank, per l'equipaggio, è la casa. Lo è stata sui vari scenari e come tale si presenta, pacchi e involucri appesi ovunque, il vecchio Sherman sembra il furgone traballante e stracolmo degli Joad di Furore. La guerra era così, non era quella dei film. Niente romanticismo del campo di battaglia. Eroi, nessuno. I cannoni di Navarone, Dove osano le aquile, All'inferno e ritorno, roba avventurosa, edulcorata, dove il buono-alleato sparava al cattivo-tedesco solo se era indispensabile. E quando il nemico, o l'amico, cadevano, si passava oltre, mentre adesso molti minuti se ne vanno sui particolari delle ferite: ventri squarciati, colli senza testa, corpi schiacciati dai cingoli o carbonizzati dai lanciafiamme. Capo ed equipaggio hanno esperienza, riescono a sopravvivere, sono ormai vicini alla meta, la Germania si sta arrendendo. Ma il Fürer ha un ultimo sussulto e Fury, massacrato, senza un cingolo, dunque immobilizzato, si trova solo in avanguardia mentre un'intera compagnia di nazisti avanza. Tutti potrebbero salvarsi, basterebbe uscire e ritirarsi, il tempo c'è e gli alleati sono lì vicino. Invece decidono di combattere, di morire. Così, per un principio. Nel racconto, nel linguaggio sono sin troppo evidenti le citazioni di Spielberg e di Tarantino, e nel sacrificio finale quella di Peckinpah: i mercenari del Mucchio selvaggio, gente senza un solo principio che "per principio" decide di morire ma di farla pagare ai nemici. E qui il massacro del nemico si trasforma da fisico a metafisico, senza proporzione, cinque, anzi, quattro morti (uno, la new entry, si salva) contro duecento. L'inquadratura a salire che si allarga sullo scenario apocalittico della violenza, del massacro e della guerra, è a sua volta un momento metafisico. Come forse lo è la guerra che non avrebbe ragione di essere, allora, come adesso, come nelle epoche.

Forte
Sono entrato nella sala con uno spirito particolare e forte. Avevo visto i trailer del film e sapevo che mi sarei avvicinato a quella storia come mi succedeva quasi sempre in un'altra età, quando il cinema era passione e identificazione. Durante la leva ero stato esattamente Brad Pitt: carrista comandante del tank M 47 Patton. Avevo lo stesso equipaggio, il pilota, l'artigliere, il servente, il navigatore: due sardi e due brianzoli. Tutto ciò che vedevo nel film, lo conoscevo. Le armi: l'automatico Garand, la mitraglietta Winchester, il mitra Thompson, la mitragliatrice pesante da carro Browning. Una volta facemmo la grandi manovre a Capo Teulada, in Sardegna. Dovevamo avanzare allo scoperto, una squadra di quattro, come nel film, avvicinarci a una zona boscosa, individuare dei bersagli fittizi e abbatterli. Cercando di evitare l'artiglieria nemica. I proiettili non erano quelli veri, i cannoni sparavano compresse di vernice, ma l'azione era roba seria, eravamo tutti coinvolti, dovevamo vincere la battaglia e la guerra. Certo, in quella simulazione i pensieri correvano. Come ci saremmo comportati davanti a un nemico vero e con veri proiettili? Noi, ultime generazioni -salvo eccezioni perché nostra gente è dislocata qua e là in guerre autoctone -non lo sapremo mai. Concludendo mi deve bastare aver simulato.
Sono stato il sergente Brad Pitt. E non è poco.

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