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Cannes 2013, più Asia nelle sezioni collaterali

India e Filippine sono in, Cina e Corea out.
di Paolo Bertolin

In foto Jia Zhang-ke, regista di Tian Zhu Ding, in concorso alla 66esima edizione del Festival di Cannes.
Jia Zhangke Altri nomi: (ZhangKe Jia ) (54 anni) 24 maggio 1970, Fenyang (Cina) - Gemelli. Regista del film Il tocco del peccato.

mercoledì 15 maggio 2013 - News

La mappa variabile delle geografie del cinema che Cannes ridisegna ogni anno, in maniera certo non deliberata, ma spesso insospettabilmente pertinente, quest'anno, sul fronte delle cinematografie dell'Asia orientale e meridionale dà segnali che stimolano intriganti congetture.
Se da un lato il concorso ufficiale permane una rocca quasi impenetrabile, dove sono ammessi solo i portabandiera più riconoscibili del cinema d'autore internazionale (nessun nuovo ingresso; i tre autori asiatici in gara sono cavalli di razza che già hanno corso per la Palma almeno una volta), i segnali che meritano un'interpretazione si possono leggere nei fermenti delle più cangianti e arrischiate scelte delle sezioni collaterali. E si possono riassumere nel fashion statement cinematografico cannense 2013: India e Filippine sono in, Cina e Corea out.

Con rispettivamente quattro e tre lungometraggi in cartellone a Cannes, il cinema indiano (che festeggia quest'anno il suo centenario ed è quindi 'paese invitato' della selezione ufficiale) e quello filippino sono in assoluto tra i meglio rappresentati sulla Croisette. E l'eccitante elemento comune di queste nutrite delegazioni è la varietà che esse testimoniano, spaziando da prove d'autore propriamente 'da festival' a rutilanti incursioni nel puro cinema di genere. Che poi il crescente valore cinefilo (quello di mercato, per il momento, è in fase d'ispezione) dei conii di Mumbai o Manila fosse anche già anticipato da veggenti selezioni veneziane negli ultimi anni della Direzione Muller - peraltro con presenze di spicco che Cannes ha letteralmente trapiantato nei suoi vivai - è conferma incontrovertibile dell'imprescindibile funzione rabdomantica e anticipatrice della Mostra di Venezia.
Per contro, la (quasi) assenza di Cina Popolare e Corea del Sud da Cannes 2013 la dicono lunga sulle fasi attraversate dalle industrie di Pechino e Seoul. Le produzioni commerciali cinesi più ambiziose non paiono convincere i selezionatori dei grandi festival. Si tratta, del resto, di film concepiti in primis per il fiorente mercato locale, in cui emergono sovente elementi di propaganda (antigiapponese, antioccidentale) che li rendono difficilmente proponibili nelle vetrine alte del cinema internazionale. Le nuove generazioni degli indipendenti, anche i più creativi e talentuosi, sono invece in un cul de sac: le produzioni no budget autoctone trionfano nei festival di seconda fascia, ma difficilmente accedono alla promozione in serie A cannense, mentre le decrescenti vene (co)produttive internazionali confluiscono su pochi autori affermati.

Compensata con sapiente cortesia diplomatica dall'invito di ben tre corti, tra selezione ufficiale e Semaine de la Critique, la prima assenza di lungometraggi dalla Corea del Sud da un decennio a questa parte ha seminato sgomento presso i competitivi coreani. Non a caso la produzione dell'attesissimo (e costosissimo) Snowpiercer di Bong Joon-ho, da mesi anticipato per una prima sulla Croisette, si è affrettata a produrre un comunicato stampa che annunciava che il film non era pronto (excusatio non petita?). Certo, a parte Bong, non erano pronti nuovi film degli habitué di Cannes. Ma che nulla da Seoul sia approdato a Certain Regard, Quinzaine o Semaine è sintomatico. Dietro la schiera degli autori canonizzati, Park Chan-wook, Lee Chang-dong, Hong Sang-soo, Kim Ki-duk, pare che il cinema coreano non abbia saputo coltivare una leva di rincalzo capace di convincere appieno Cannes. Se la freschezza e novità del cinema commerciale coreano s'è difatti diluita (e forse purtroppo spenta) in paradigmi di ripetizione di formule consolidate, parallelamente, gran parte dei giovani che cercano fortuna ai festival si adagiano su pratiche di mera emulazione dei maestri che li hanno preceduti.

Veniamo invece a chi effettivamente salirà la rossa scalinata del Palais. Per il Giappone, infatti, l'interrogativo legittimo sul rinnovo generazionale è procrastinato dall'invito al tenzone cannense di ben due titoli. Chi a Tokyo ha già visto Like Father, Like Son (Soshite Chichi ni Naru) di Koreeda Hirokazu ha parlato di una riuscita "miracolosa". Il nono film dell'autore di Maborosi e Nobody Knows scandaglia le incrinature nelle certezze di un uomo di successo, allorché scopre che il figlio di sei anni non è sua prole biologica: uno scambio nella culla d'ospedale ha portato lui e la moglie ad allevare il figlio di una coppia meno abbiente. Ha invece provocato qualche levata di sopraccigli tra i nipponici la selezione di Shield of Straw (Wara no Tate) di Miike Takashi, in quanto si tratta di un puro intrattenimento di genere. Le premesse sono nondimeno elettrizzanti: un miliardario mette una taglia di un miliardo di yen sulla testa del presunto assassino di sua nipote; l'uomo si costituisce, ma quest'ultimo e i quattro agenti che lo devono scortare da Fukuoka a Tokyo devono sopravvivere agli agguati e assalti di una miriade di potenziali cacciatori di taglie.

Ci sono poi molte attese per il ritorno in concorso di Jia Zhangke con A Touch of Sin (Tian Zhu Ding). Il più intenso e ispirato aedo della Cina contemporanea si impegna in un nuovo affresco socio-politico-economico che, attraverso le storie di un minatore, un migrante, un operaio e della receptionist di una sauna, porta alla luce la buia violenza, repressa, ma pronta ad esplodere, che si cela dietro la facciata luminosa del boom economico.
A Un Certain Regard, fa il suo ritorno il franco-cambogiano Rithy Panh, autore dell'indimenticabile S21, la Machine de Mort Khmère Rouge. Con L'image manquante, Panh aggiunge un'ulteriore tassello al mosaico del suo encomiabile lavoro su e per la memoria individuale e collettiva del suo paese. La ricerca di una fotografia scattata dai Khmer rossi durante il loro dominio sul paese porta Panh alla convinzione che tale immagine deve mancare e che dunque lui abbia da ricrearla in cinema.
Nel secondo concorso si vedrà pure Bends, opera prima dell'hongkonghese Flora Lau, già distintasi con notevoli corti e documentari. Il suo debutto (che conta sulla fotografia di Christopher Doyle) racconta le tensioni umane, politiche ed economiche tra Cina e Hong Kong attraverso i finestrini dell'auto dove s'inscena l'amicizia tra una donna abbiente, il cui marito s'è dato alla macchia a seguito di inghippi finanziari, e il suo autista, cinese continentale che cerca di far migrare la propria famiglia a Hong Kong.
L'ex colonia britannica è rappresentata a Cannes pure dal veterano Johnnie To, che ha ricevuto una collocazione a Mezzanotte per Blind Detective. Nel nuovo thriller dell'inarrestabile autore di Election, Exiled e Life Without Principle la superstar Andy Lau interpreta un ex agente di polizia, divenuto cieco durante il servizio, e che si dedica alla risoluzione di casi in cui la polizia non sa raccapezzarsi.

Tornando a Un Certain Regard due autori filippini si contendono il premio di sezione. Il prolifico e versatile Adolfo Alix Jr. con Death March rievoca in bianco e nero e su fondali deliberatamente artificiali, tra allucinazioni, realismo umanista e astrazione, una marcia della morte di soldati americani e filippini prigionieri dei giapponesi in data 1942.
Norte, the End of History è la prima selezione a Cannes per il sommo Lav Diaz, autore di culto e di nicchia per eccellenza, divenuto leggendario per le durate monstre dei suoi film (undici ore per Evolution of a Filipino Family) e pluripremiato alla Mostra di Venezia. L'ultima fatica di Diaz interseca, in 'sole' quattro ore, le traiettorie di un uomo condannato per un delitto che non ha commesso e che assiste a misteriosi eventi durante la sua detenzione e dell'omicida a piede libero, un intellettuale le cui sorti si connettono all'attualità politica delle Filippine.

La terza presenza dall'arcipelago è alla Quinzaine con il debutto tra i grandi del re del B movie filippino, Erik Matti. Noto al pubblico italiano del Far East Film di Udine che ne ha contribuito al lancio in Europa, come già per altri autori di genere asiatici, da Johnnie To a Kim Jee-woon, Matti ha nel suo curriculum spericolate prodezze come l'esilarante Spider Man terzomondista Gagamboy, lo sfrontato dramma erotico Prosti e l'adrenalinico horror Tiktik: The Aswang Chronicles. Con On The Job si avventura in territori thriller prossimi a quelli cari al miglior cinema di Hong Kong, per raccontare di due galeotti e sicari della politica corrotta, rilasciati ad hoc ogni volta che sono chiamati al lavoro, delle vite che hanno lasciato fuori dalla galera del loro legame padre-figlio, tra fedeltà e tradimento. Ambizioso e intenso il film di Matti potrebbe segnare una nuova esaltante stagione nel cinema di genere asiatico.
Baluardo del nuovo che avanza, la Quinzaine dà spazio anche ad un'opera prima da Singapore (che vanta in gara pure il cortometraggio di Jow Zhi Wei). Ilo Ilo di Anthony Chen mette in scena con toni pastello e delicatezza il rapporto, dapprima conflittuale poi simbiotico, tra un bambino e la governante filippina (Angeli Bayani, attrice feticcio di Lav Diaz) sullo sfondo di una crisi familiare che si embrica con le conseguenze della crisi economica asiatica del 1997.
Grazie alla Quinzaine, anche Taiwan trova spazio a Cannes, un po' per default però, visto che il progetto Taipei Factory è stato concepito in sinergia dalla Taipei Film Commission e dalla Quinzaine. L'iniziativa consiste nell'accoppiare quattro giovani registi taiwanesi (scelti della prima) e quattro internazionali (indicati dalla seconda) per realizzare quattro cortometraggi. Tra i nomi coinvolti spiccano Midi Z, il birmano di Taiwan, già apprezzato nel circuito festivaliero per Return to Burma e Poor Folk, e Singing Chen, autrice dell'etereo God Man Dog.

Rimane da dire dei quattro film indiani, che hanno un minimo comune denominatore, la produttrice Guneet Monga. È davvero raro che un'intera partecipazione nazionale a Cannes, soprattutto se così nutrita ed equamente distribuita su tutte le sezioni, sia stata concepita sotto l'egida di una stessa mente creativa, ma Monga è pure coproduttrice del film d'apertura della Quinzaine, The Congress di Ari Folman. Dinamica e intraprendente, Monga si è fatta conoscere per il suo sodalizio artistico con il più amato degli autori post-Bollywood, Anurag Kashyap, e con quest'ultimo ha incubato una nuova generazione di registi indiani pronti a riportare la cinematografia del subcontinente al centro del proscenio mondiale (per la cronaca, l'India manca dal concorso di Cannes dal 1994). Ben due delle produzioni targate Monga sono dirette dallo stesso Kashyap: dopo avervi trionfato l'anno scorso con l'epopea di Gangs of Wasseypur, l'instancabile filmmaker torna alla Quinzaine con Ugly, intenso dramma innescato dalla scomparsa di una bimba di dieci anni, e debutta in selezione ufficiale con il film a episodi prodotto per celebrare il centenario del cinema indiano Bombay Talkies, dov'è affiancato dagli altri astri della nuova Bollywood, Zoya Akhtar, Dibakar Banerjee e Karan Johar. In un perfetto equilibrio tra conferme e scoperte, gli altri due film sono dei debutti: Monsoon Shootout di Amit Kumar, alla mezzanotte, thriller incentrato sui conflitti morali di una recluta della polizia di Mumbai, e The Lunchbox di Ritesh Batra, alla Semaine de la Critique, che racconta dell'erronea consegna di un pranzo pronto, svista che mette in contatto le vite di una casalinga e di un anziano impiegato sullo sfondo della megalopoli indiana.
Ulteriore e definitiva conferma dell'infatuazione di Cannes 2013 per India e Filippine la danno le due presenze asiatiche a Cannes Classics, la sezione dedicata ai restauri: il sontuoso capolavoro di Satyajit Ray Charulata e lo struggente Maynila, sa mga Kuko ng Liwanag di Lino Brocka, il più bel film filippino di sempre.

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