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Horror Frames: Case 39 e i bambini diabolici

Trasformare l'emblema dell'innocenza in qualcosa di turpe.
di Rudy Salvagnini

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Simbolo di una maledizione soprannaturale
Renée Zellweger (Renee Kathleen Zellweger) (55 anni) 25 aprile 1969, Katy (Texas - USA) - Toro. Interpreta Emily Jenkins nel film di Christian Alvart Case 39.

martedì 17 agosto 2010 - News

Simbolo di una maledizione soprannaturale
Nell'horror ci sono i bambini mostruosi, come quello protagonista di Baby Killer, e ci sono i bambini diabolici: quelli capaci di ogni malefatta perché posseduti dal demonio o demoni essi stessi (Il presagio e il plotone di seguiti e imitazioni) e quelli semplicemente cattivi dentro. Un classico esempio in quest'ultimo senso è quello interpretato da Macaulay Culkin, sin lì bambino perfetto per commedie slapstick (Mamma ho perso l'aereo), ne L'innocenza del diavolo, ma ce ne sono diversi altri: Mikey è un altro esempio probante. L'espediente narrativo è evidente, in questi casi: trasformare l'emblema dell'innocenza, se non della bontà, in qualcosa di turpe. Antesignani sono stati film non appartenenti al genere horror, ma capaci di tracciare con tagliente efficacia il ritratto di una malevolenza non estranea a certi aspetti della psicologia infantile, almeno nei suoi casi più patologici. Le bambine pettegole di La calunnia e del remake Quelle due sono esemplari, ma lo è anche la bambina perfida di Il giglio nero, interpretata mirabilmente da Patty McCormack (molto più tardi, mamma ancor più perfida in un piccolo psycho-thriller, Mommy, diretto da Max Alan Collins, giallista e fumettista, autore tra l'altro dei testi della graphic novel da cui è stato tratto Era mio padre con Tom Hanks). Ma qui parliamo di horror e, in questo caso, in particolare di bambini che non sono solo cattivi, ma anche demoniaci. Recentemente, la saga di The Grudge ha riportato in primo piano la figura infantile come simbolo di una maledizione soprannaturale. Case 39, invece, si ricollega direttamente agli esempi più tradizionali e alla rappresentazione del lupo in veste d'agnello/bambino.
Emily Jenkins è un'assistente sociale e ha fatto dell'aiutare i bambini in difficoltà la ragione della sua vita. Ha 38 casi aperti da seguire, ma il suo capo gliene dà un altro, il trentanovesimo. Quello di Lilith Sullivan, una bambina. Emily va a trovarla a casa dei suoi genitori. Lilith è titubante e introversa, ma sembra desiderosa di fare amicizia. I genitori sono invece torvi e sospettosi, fortemente oppositivi. Emily riesce a parlare da sola con Lilith, che, timorosa, le confessa di credere che i suoi genitori la odino e vogliano mandarla all'inferno. Ma poi non conferma le accuse davanti al capo di Emily, che quindi vorrebbe abbandonare il caso. Perciò Emily va dal suo amico Mike Barron, detective della polizia, chiedendogli di indagare. Nel frattempo si tiene in contatto con Lilith e accorre a una sua disperata richiesta d'aiuto, proprio mentre i suoi genitori stanno cercando di metterla nel forno. Grazie all'intervento di Barron riesce a tirare fuori dal forno (già acceso) la bambina e a frenare la reazione violenta dei genitori. Lilith è ricoverata in ospedale dove la visita lo psicologo Doug, amico di Emily. I suoi genitori sono sottoposti a perizia psichiatrica. Tutto sembra essere stato ricondotto a giustizia e normalità. Ma è proprio qui che comincia l'orrore per Emily, che, contro ogni prassi, porta la piccola a vivere con lei.

Carte scoperte
La parte iniziale del film, con la presentazione della bambina e, soprattutto, dei suoi inquietanti genitori, è ben giocata. I genitori emergono come dei pazzi deviati, caratterizzati da comportamenti maniacali, ma allo stesso tempo proprio questo quadro così chiaro lascia suggestivamente trapelare che le cose non stiano così. I dettagli che suggeriscono come sia Lilith il vero problema si inseriscono gradualmente nella trama dandole un convincente spessore di malessere. Quando comincia a strisciare dentro la storia l'elemento soprannaturale, l'effetto è inizialmente notevole. La morte dello psicologo, aggredito da calabroni venuti dal nulla nel bagno di casa sua, è un efficace momento di suspense realizzato con bravura, che porta il film su un piano completamente diverso da quello iniziale.
È però anche il momento in cui il film scopre tutte le sue carte, senza tenerne alcuna di riserva. Da lì in poi non ci sono altre sorprese narrative e tutto diventa sostanzialmente un mero gioco di sopravvivenza, una lotta per la vita e per la morte. Tutto quello in cui Emily ha creduto le si rivolta contro: quando, impaurita, chiede che le venga tolta la custodia della bambina, una collega la invita a far funzionare la loro relazione con i metodi - comprensione e dialogo - che sono abituati a usare in questi casi. L'ironia della situazione è evidente. Il paradigma dell'innocenza infantile supera ogni opposizione. Non si può contestarla e la cosa provoca disastri. Naturalmente, solo in un film dell'orrore. La metafora potrebbe essere che contro il male - anche quello non soprannaturale, ma semplicemente radicato nella società - il buonismo della psicologia e dell'assistenza non funziona. Però forse è troppo cercare un senso sociologico a questo film che, dopo aver posto delle premesse inquietanti, preferisce rifugiarsi in un terreno assai convenzionale e già visto.
Il tedesco Christian Alvart - regista di Pandorum - riesce a tenere sufficientemente teso il racconto, ma tutta la seconda parte tende a essere ripetitiva, retta solo da una questione: riuscirà Emily a convincere qualcuno a crederle e riuscirà quindi a sopravvivere? Nel procedimento per la risoluzione del quesito, il film rasenta più volte la perdita di credibilità, andando spesso oltre il confine della logica e della coerenza narrativa. Questa non è una cosa rara in un horror, per motivi spesso intrinseci al genere. L'importante sarebbe che, comunque, la cosa funzionasse a livello di intrattenimento. E qui, appunto, smette invece abbastanza presto di funzionare.
Renée Zellweger regge la parte principale in modo accettabile e professionale, ma indulge spesso in manierismi anche stucchevoli. Nel resto del cast, discreto, a spiccare, oltre al bravo veterano Ian McShane, è soprattutto Jodelle Ferland che interpreta Lilith: molto brava, dà credibilità a un personaggio che potrebbe essere di maniera.
Il film ha avuto diversi problemi distributivi ed è uscito anni dopo la sua realizzazione e solo in dvd, anche da noi. Sarebbe ovvio - e cattivo - dire che, vedendolo, si capisce perché. Diciamo invece che Case 39 non è inferiore ad altri horror che hanno avuto una regolare uscita nelle sale, ma che sembra il frutto poco riuscito di un vano tentativo di amalgamare due anime diverse: quella problematica e suggestiva della prima parte e quella esteriore e di routine della seconda.

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