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Addio J.D. Salinger

Siamo tutti giovani Holden.
di Pino Farinotti

La morte di un mito
J.D. Salinger 1 gennaio 1919, New York City (New York - USA) - 28 Gennaio 2010, Cornish (New Hampshire - USA).

venerdì 29 gennaio 2010 - Focus

La morte di un mito
Comincio con una certa enfasi che, sono sicuro, mi verrà perdonata: col finale della citazione di John Keats che Hemingway pone come premessa del suo Per chi suona la campana.
"... e dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Essa suona per te."
E mai una campana ha suonato per noi, come quella di ieri, quando abbiamo saputo che J.D. Salinger era morto. Tutti sappiamo cosa significhi il suo romanzo "Il giovane Holden". Significa per cominciare che quel libro fa parte di tutti noi. Quando era il tempo sono stato l'adolescente Holden Caulfield e quando è stato il tempo sono stato padre di giovani Holden. Significa semplicemente che nella prima stagione avevo idee e compivo azioni diverse da quelle dei miei genitori e capitava che non le capissero, e che adesso i miei figli hanno idee e compiono azioni che non sempre capisco. Naturalmente sta nelle cose. Ma quando un autore coglie in pieno quello "stare nelle cose", diventa qualcosa in più di uno scrittore, diventa parte della tua cultura e del tuo sentimento, e pensieri e azioni, li devi in parte a lui. Proprio non è poco. Nel mio caso poi c'è dell'altro, c'è il mestiere, perché anch'io scrivo romanzi. Qualche anno fa, proprio su MYmovies scrivevo un pezzo da titolo "Sognavo Salinger". Era il mio progetto giovanile di aspirare a quel modello piuttosto che a un critico (di cinema).

Inventore
Salinger è stato scrittore, soprattutto è stato inventore. Più avanti riproduco l'incipit del suo romanzo e spiego cosa significhi. Era nato nel '19 e aveva scritto "Holden" nel '51. Era l'erede della strepitosa tradizione letteraria anglosassone che partiva dai britannici di due generazioni prima.

Stralcio dalla puntata 46 della storia poconormale
"...Scrittori come Kipling e Stevenson, come Conrad, Maugham e Forster, britannici nati in Ucraina e morti nel Kent (Conrad),o nati a Bombay e morti a Londra (Kipling), comunque sempre in giro nei due emisferi: sono loro, in quelle epoche, che hanno inventato un parte della nostra più bella educazione sentimentale, e anche culturale. L'incanto, il sogno, l'avventura, le terre lontane e tante terre, l'estremo oriente e il medio, l'India e l'Australia, il Canada, le isole del Pacifico e dei Carabi. Una cultura tutta sui libri, prima che arrivasse il cinema. Quando le coste e le navi, le genti e gli animali, le armi e gli amori, il deserto e le carrozze, i poveri e i ricchi, quasi sempre i ricchi: tutto doveva essere desunto dalla scrittura, sforzo attivo di fantasia, con l'eroe da immaginare, non un Gary Cooper scelto da altri per nostra comodità. E in che grande misura il cinema avrebbe attinto a quegli autori..."

Generazione
A questi seguì la generazione americana nata verso la fine dell''800. Fitzgerald, Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos sono tutti nati fra il 1896 e il 1902. Costoro, eredi dei contenuti di quelli detti sopra, portarono la naturale evoluzione di pensieri e di azioni, e naturalmente di stile. Evolsero e riformarono. Ma Salinger non si limitò alla riforma, fece la rivoluzione, di contenuti e di stile. E continua ad esserci dell'altro: il suo privato, giusto per alimentare, come non bastasse, la sua mitologia. Il fatto che da 46 anni non uscisse praticamente dalla sua tenuta di Cornish, che odiasse la gente, che non parlasse con nessuno. In questo senso invito a rivedere Scoprendo Forrester, il film di Gus Van Sant, con Sean Connery. Davvero viene proposta un'ottima percezione di quello che era Salinger.
Ed ecco il pezzo che ho scritto lo scorso anno quando l'ennesimo ingenuo cercò di acquisire i diritti del romanzo.

Tentativo di portare sullo schermo Il giovane Holden - L'unico grande romanzo americano mai diventato film Il pozzo e il pendolo (Poe) Moby Dick (Melville) , Huckleberry Finn (Twain); Giro di vite (James), La lunga estate calda (Faulkner); Il grande Gatsby (Fitzgerald) Il grande sonno (Chandler); Addio alle armi (Hemingway); La valle dell'Eden (Steinbeck); Colazione da Tiffany (Capote); Il nudo e il morto (Mailer); Lolita (Nabokov); Il crogiuolo (Miller); Un tram che si chiama desiderio (Williams); Greystoke (Burroughs); Jurassic Park (Crichton); Shining (King). Trattasi di romanzi e drammi teatrali fondamentali, così come le firme. Americani. La selezione è naturalmente è parziale e arbitraria. Il concetto è "a campione". Questi romanzi e questi drammi sono diventati film. L'assunto è: tutti i grandi romanzi americani sono diventati film. Tranne uno. Perché?

Il più
Una corrente di giudizio, autorevole, ritiene che "Il giovane Holden" di J.D.Salinger, sia il più grande romanzo americano del '900. Anche dire "il più" è arbitrario e pericoloso, nell'arte e in letteratura non ci sono misure esatte naturalmente, tuttavia se un romanzo ha inquadrato un sentimento e poi lo ha scomposto e poi trasformato, quello è certamente "Il giovane Holden. È la storia di un adolescente a disagio, che contesta tutto ciò che gli sta intorno. A cominciare dai genitori. La cosiddetta rivoluzione giovanile, attraverso corsi e ricorsi del secolo scorso, non può non riconoscere in quel breve romanzo una sorta di primo motore. La genesi, la scrittura, il destino di quel testo, e poi l'autore, personaggio complesso e misterioso: se il termine "mito" ha un senso, ebbene tutto si è mosso in quella direzione. La storia ci dice che il mito c'era e c'è, ed è sacrosanto.
Il Celebrity Group, casa di produzione indipendente con sede a New York, ha chiesto i diritti del libro. Non li otterrà. Per il cinema si erano già mossi, nei decenni, Samuel Goldwyn, Wilder, addirittura Jerry Lewis, e poi Spielberg, Jack Nicholson e Tobey Maguire. Inutilmente. Salinger ha respinto tutti, con perdite gravi. Ma perché tanta popolarità e leggenda? Qual è il sortilegio che appartiene a quel libro? Prima di tutto lo stile: niente, proprio niente di letterario. L'incipit vale più di tutte le analisi.

"Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto."

Mirabolanti
Holden Caulfield parla come un ragazzo. Salta all'occhio. E poi: qual è la struttura della storia? Quali sono le avventure mirabolanti che scuotono tanto in profondità la coscienza del lettore fino a insinuarsi nel suo tessuto genetico? Niente di mirabolante. Trattasi di piccole vicende quotidiane: Holden viene espulso dal collegio; litiga con un compagno; fugge durante la notte: una piccola sbornia; il primo approccio (non consumato) con prostituta; la fuga dai genitori; il guantone da baseball-feticcio ricordo del fratello morto; l'affetto per sua sorella che fa da mediatrice; il vecchio insegnante ritrovato; il progetto di fuga totale; il ripensamento finale grazie alla sorella. Vicende minime, ma decisive e perfette, necessarie&sufficienti. A tutto questo naturalmente si lega l'incanto non definibile che produce il fenomeno. Vale per tutto, la musica, e tutte le arti. Un solo esempio omologo: l'Urlo di Munch. Il ragazzo Holden semplicemente assumeva tutti i sentimenti dei suoi pari: si chiama identificazione. Da allora, fino a oggi, quel modello è vivo e presente, si fa vedere e sentire, non gli sfuggi. Il libro è del '51.

Elvis
Un paio d'anni dopo, la musica fa la sua rivoluzione: il rock, Presley e tutti gli altri. Guastatori. Elvis era un ventenne "quasi" un adolescente, ma i termini non mutano. Poco dopo il cinema produce i suoi nuovi eroi giovani, James Dean in testa, portatore di ogni disagio e rivendicazione, ribelle totale. È anche la stagione inglese degli arrabbiati (Angry young men) rappresentati dal teatro di John Osborne: "quelli che odiavano tutte le convenzioni". I ragazzi che diedero vita ai movimenti americani ed europei degli ultimi anni Sessanta sono certamente amici di Holden. E, risalendo nei decenni, si fa notare River Phoenix, giovane dolente e difficile, anche lui vicino alla famiglia degli Holden e dei Dean. Anche i nostri Muccino (Silvio) e Scamarcio giovani possono essere eredi non lontani del ragazzo di New York. Un'ultima citazione: Into the Wild di Sean Penn, vera storia di Christopher, in pieno disagio famigliare, che si immerge nella natura selvaggia. È ancora il tema della fuga, il tema di Holden. Sì, il ragazzo non molla mai.
Un eroe e un romanzo "capostipiti". E un film-capostipite mai fatto: che assurdità. La ragione sta nell'autore. Salinger, classe 1919, non è un carattere semplice. Va detto subito, ed è notorio, che lo scrittore dal 1965 rinchiuso letteralmente nella sua tenuta di Cornish nel New Hampshire, non ha rapporti col mondo. "Offeso" dall'essere identificato quasi "soltanto" da quel romanzo. Lui che ha scritto tanto altro. E poi i film: li amava molto. Ma nel '49 Hollywood devastò un suo racconto, "Uncle Wiggly in Connecticut". Ne rimase così deluso da decidere che mai più si sarebbe concesso al cinema. E così è stato. E sarà.
Il giovane Holden manterrà quel distacco esclusivo. Anche questo è mito, e continuerà, sempre, a nutrire il romanzo. La letteratura che difende la propria identità e la propria purezza. Nessuna licenza e contaminazione. "Niente cinema per il romanzo più grande e cinematografico": alla fine, per una volta, è una magnifica didascalia."

Racconto
Nell'agosto del 2009, nel quadro di una serie di miei racconti pubblicati sul quotidiano Libertà di Piacenza scrivevo "La stilografica di Cap Ferrat".
Sentimento, cultura, modelli, miti. Ce n'erano molti miei personali, ma anche nostri. E c'è anche Salinger.

La stilografica di Cap Ferrat di Pino Farinotti
Io sono una penna. E lo dichiaro senz'altro: sono una leggenda. Sconosciuta, sotterranea, ma una leggenda. Che sto per raccontare. Vi dico che non ho lasciato solo dei tratti, o firme, o lettere. Ho lasciato dell'altro. Senza di me molte cose sarebbero diverse, anche voi che mi state leggendo sareste diversi. Le cellule che contengono la fantasia e l'incanto, sarebbero meno sollecitate e creative, la vostra educazione sentimentale sarebbe meno ricca, decisamente meno ricca.
Che io sia un oggetto... raro salta all'occhio. Ero preziosa e molto costosa. Ero... sono, da collezione.

La mia storia comincia nel negozio di antiquariato Henry Rochelle, Cap Ferrat, nel maggio del 1924, quando una donna elegante, giovane e un po' triste, assonnata alla cinque del pomeriggio, mi vide in vetrina, entrò e mi pagò in dollari, 375. Si chiamava Zelda. Ero un regalo per suo marito Scott, che proprio quel giorno avrebbe cominciato il suo quarto romanzo, "Il grande Gatsby". Una nuova penna era un rito per Scott. Avrebbe scritto l'incipit, poi sarebbe passato alla macchina da scrivere. La Costa azzurra, in quegli anni era davvero il mondo. Quasi tutta l'America bella, ricca e trasgressiva, passeggiava felice sulla promenade des englais, camminava a piedi nudi sulla spiaggia di La Mala e partecipava alle feste dei Fitzgerald. Scott era seduto al suo scrittoio, intorno a lui una quindicina di amici, quasi tutti col bicchiere in mano, attenti a quel foglio che lo scrittore toccava, accarezzava. Io ero già stata tolta dal mio astuccio, riempita di inchiostro. Fitzgerald mi prese, mi guardò e rigirò, mi mostrò agli altri sorridendo. Ero pronta per il rito. Avrei dato il la al nuovo capolavoro e al nuovo successo e alla pioggia relativa di dollari, buona per affittare le ville di Cap Ferrat e per offrire Moet&Chandon ai convenuti, anche di mattina. Scott cominciò a scrivere.

Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. "Quando ti vien voglia di criticare qualcuno" mi disse " ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu"

In autunno, tutti quanti, me compresa riposta nel mio astuccio, tornammo in America, a Great Neck, dove Scott finì la stesura del romanzo. Nel frattempo ero servita per la scrittura di alcuni inviti, non molti, quelli preziosi. Per gli altri, ed erano migliaia, venivano usate penne meno preziose. In tutto questo ero perfettamente a mio agio.
Ma "Il Grande Gatsby" non ebbe il successo che i Fitzgerald si attendevano e si può dire che fu l'inizio della decadenza della famiglia. Zelda era passata dalla depressione alla... pazzia, e... peggiorava. Scott accettava tutti i lavori, umiliando il proprio talento. Io "riemersi" a Hollywood, nel piccolo appartamento di Fitzgerald. Scott non stava bene e aveva molto bevuto. Erano venuti a trovarlo Leonard Woolf e sua moglie Virginia. Io ero in una scatoletta insignificante, abbandonata su un tavolo. Virgina mi notò. Disse "ma che magnifica penna". Scott disse "te la regalo". Virginia si schermì, diceva "non voglio che te ne privi" Scott insisteva. Insomma divenni proprietà di Virginia Woolf e un mese dopo ero appoggiata sul suo scrittoio a Rodmel, Sussex, Inghilterra. Com'era strana Virginia. E tormentata, e maledetta, e disperata. E io ero attiva. Scrissi quattro lettere a Vita Sakville-West, scrittrice lesbica con cui la mia padrona aveva avuto una relazione anni prima, ma scrissi anche un'altra lettera. A Leonard, l'infelice marito.

"Carissimo, sento proprio che sto per impazzire di nuovo. So che non possiamo assolutamente affrontare di nuovo quei momenti terribili. E questa volta non guarirò. Comincio a sentire delle voci e non riesco a concentrarmi. Così mi sono decisa a fare ciò che sembra la cosa migliore. Tu mi hai dato la più grande possibile felicità... non penso che due persone possano essere state più felici di noi fino al sopraggiungere di questa terribile malattia. Non ce la faccio più a lottare. So che adesso sto rovinando la tua vita e che senza di me riusciresti a lavorare... voglio dirti, tutti lo sanno, che se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n'è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Io non posso proprio continuare a rovinarti la vita."

Virginia uscì di casa, camminò verso il fiume Ouse, si mise in tasca dei sassi, entrò nell'acqua e si lasciò annegare. Un istante prima di uscire mi aveva tolto dalla sua tasca e posto in una piccola custodia d'argento. Le fui sempre grata. Non avrei gradito finire sepolta per sempre nel fondo sabbioso di un fiume del Sussex.
Nella deprimente, per lui e per me, solitudine di Leonard, un giorno irruppe una ragazza, bella e viva, che non avrei mai attribuito alle amicizie dei Woolf, Elizabeth Murray. La accompagnava un militare, un americano distaccato a Londra. Si chiamava Jerome, tentava di fare lo scrittore. Leonard e Jerome parlavano, si capivano. Forse Leonard aveva visto nel giovane qualcosa che era appartenuto a Virginia. E poi emerse che qualche affinità fra la scrittrice e il futuro scrittore c'era.
Così venni regalata al militare. Un paio di anni dopo, nel suo zaino, attraversai la manica e saltai su una spiaggia della Normandia. E qualche tempo dopo approdai in America, esattamente a Cornish, New Hampshire. E fu lì, in una casa di legno, in una stanza semibuia e polverosa che scrissi qualcosa che poi si sarebbe rivelato importante, molto:

"Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quella baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne..."


Il titolo del romanzo era "The Catcher in the Rye", diventato in italiano "Il giovane Holden". Il cognome di Jerome era Salinger.
Il grande successo non fece bene a Jerome. Praticamente sarebbe rimasto rinchiuso in quella casa... per cinquant'anni. Era lì sepolto, con le sue angosce, i riti esoterici. Usciva solo in giardino, di notte. Non apriva a nessuno. A qualcuno aprì, glielo impose l'editore. La fortunata era Sara Mayer, giornalista free lance, che riuscì a fare qualche domanda allo scrittore, che rispose a monosillabi. Sara non aveva una penna. Salinger mi recuperò sotto carte e libri, nella polvere. Dopo anni l'inchiostro si era seccato. E non scrivevo. Allora trovò una matita. Sara disse, distrattamente, o forse no, "però che bella penna, peccato lasciarla morire così". E Salinger, impaziente e infastidito disse "tientela".
Quando nella borsetta di Sara approdai in Sicilia, ero "restaurata", sapevo ancora scrivere. Sara era in visita all'isola con un amico. La faccio breve: litigarono e lui la piantò in asso. Si trovava a Palermo, con pochi dollari, doveva pagare l'albergo e il biglietto di ritorno a New York. Ma Sara sapeva come cavarsela. Si informò sulla via chic della città, le dissero via Ruggiero VII. Entrò in un negozio disse le parole giuste e mi vendette. Il giorno dopo, il proprietario chiamò un suo cliente. Disse "principe, c'è qualcosa per lei".
Giuseppe Tomasi di Lampedusa non aveva molti soldi, ma gli piacqui, e mi portò via lasciando un acconto. Il principe aveva credito. Lampedusa era docente di letteratura francese. Un giorno venne a trovarlo Lorenza D., la sua allieva preferita. Giuseppe la fece sedere. Le disse "scusami un momento, devo scrivere una frase". Aprì una cartella che conteneva un manoscritto. Che cominciava così:
"La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i misteri dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte..." Sopra la prima riga scrissi: "Nunc et in ora mortis nostrae. Amen." Ancora una volta mi accreditavo di un incipit.... educazione sentimentale. E ancora una volta venni regalata. Lorenza aveva talento e iniziativa. Letteratura francese: dunque Georges Simenon. Mosse le conoscenze per un appuntamento a Parigi. E mosse se stessa. Era brava a farlo. Di Simenon le interessava la scrittura, e anche la "leggenda erotica", chiamiamola così. 1200 donne sedotte. Borghesi, cameriere, alta società e puttane, tante puttane. L'inventore di Maigret fu amabile. Naturalmente. E io, chiusa nella borsetta non posso dire nulla: di interviste, di approcci. Ma so cosa scrissi. Niente incipit questa volta. Simenon regalò un suo romanzo alla bella italiana, "Maigret e il léttone". E io scrissi la dedica: " a Lorenza, per le labbra..."
Il book della ex studentessa recava dunque nomi importanti, Lampedusa, Simenon. Manca un sudamericano, pensò Lorenza. Lesse su un giornale che la Rai avrebbe trasmesso uno speciale per uno scrittore colombiano emergente, tale Gabriel Garcia Marquez. Lorenza le venne presentata. Lei lo conquistò subito. Marquez le fece un grande complimento, le disse "lei mi ispira... devo scrivere". Passai nelle mani del futuro premio Nobel e stavolta non fu per un incipit, ma per un finale.
"... Tuttavia prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell'istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a un secolo di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra."
Marquez disse: non mi convince "un secolo di solitudine" e io corressi "cento anni di solitudine."

La situazione, creativa, eccitante, fu tale che venni dimenticata, lì sul tavolo del camerino.
Ma fu questione di minuto. Un altro personaggio entrò nel camerino. Anche lui sarebbe stato protagonista di uno "special". Doveva aspettare il suo momento. Mi vide, mi prese, disse "però che bella". E così il destino mi riservava un altro incipit, incipit con le virgolette, o forse non lo era, era una strofa...:
"Questo ragazzo della via Gluck si divertiva a giocare con me. Ma un giorno disse, vado in città e lo diceva mentre piangeva..."
Dal Grande Gatsby... alla via Gluck. Ero disperata. Rinunciai, mi arresi. Non mi interessava il futuro. Lo dico "letterariamente" ormai mi sarei rassegnata al nulla. Ma non fu così. Non so davvero come, ma dopo anni finii in un negozio, prezioso, di via della Spiga, a Milano. Mi acquistò Daniela F., per regalarmi a suo marito, scrittore. Sapeva che non era un raffinato, anzi l'aggettivo pertinente è "rozzo". Ma, raffinata lo era, lo è lei. E così aggiunsi alla mia collana un nuovo incipit.
"Lo dichiaro senz'altro: non leggo gli oroscopi, le madonne non piangono, non mi evolverò in una farfalla o in un santo. Ma sono disposto a credere se qualcuno mi porta delle prove. Almeno indiziarie". Il romanzo si intitola "7 chilometri da Gerusalemme" ed è un best seller. E lo scrittore... be' lo scrittore mi ha detto "fra Fitzgerald, Salinger, Lampedusa e tutti gli altri forse non è il caso di fare il mio nome...". E io non lo faccio. Ma pur senza nominare l'autore, non posso non ricordarlo. Perché è lui che ha scritto la mia storia.

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