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Guerra in Iraq: Hollywood contro Usa

La guerra, per il cinema uno spunto narrativo imperdibile.
di Pino Farinotti

La guerra in Iraq vista da Hollywood
Pino Farinotti .

lunedì 7 luglio 2008 - Focus

La guerra in Iraq vista da Hollywood
L'Iraq, il Golfo, sono elementi, strumenti, che coinvolgono tutto, opinione comune, politica e cultura. Con grande intensità. E coinvolgono il cinema. Per i film quella guerra è un'occasione imperdibile, un'idea su cui lavorare, uno spunto per delle indicazioni, e per un contrasto. Il contrasto, è notorio, con la Presidenza. Non c'è voluto il tempo di una generazione per avere una prospettiva storica per un giudizio sull'Iraq. Che fosse una guerra sbagliata lo avevano capito quasi tutti. Non lo aveva capito l'uomo che poteva... non dichiararla. La guerra è la guerra, tragica e paradossalmente cinematografica. Per il cinema è bastato guardare con attenzione, cercare e trovare senza tanta fatica.

Stop-loss
Brandon Hughey è un sergente dell'esercito americano. Inviato in Iraq all'inizio della guerra, è tornato a casa dopo otto mesi. Richiamato secondo lo stop-loss, una norma che impone agli "specialisti" il ritorno in zona di guerra, è tornato in Iraq. Di nuovo congedato è stato di nuovo richiamato. Ma questa volta Brandon non ha risposto, ha deciso di disertare. Reduce due volte, devastato nel corpo, devastato dovunque, ha preferito fuggire e nascondersi. Stop loss si traduce "stop alla perdita"ed è una strategia mirata a salvaguardare il capitale investito in un'attività finanziaria. Dunque sul militare-specialista era stato fatto un investimento, che "economicamente", andava... ammortizzato. La storia di Hughey è ora un film (Stop-loss, appunto), diretto da Kimberly Peirce, che presto vedremo in Italia. Il sergente è diventato un simbolo, un eroe di pacifismo e di resistenza. La cultura americana, che sa (sapeva) essere "patriottica", sa anche essere indipendente. Non si fa scrupoli a censurare, a stroncare e a opporsi, anche con violenza, anche con ferocia, a certe scelte della sua classe dirigente. Non ha problemi a proclamare "dirigi male". I film su quella guerra sono tutti film "contro" quella guerra. E questo è un dato interessante, è l'ultima fase dell'evoluzione del "sentimento guerra" rispetto al tempo e alla storia. I film sul Vietnam, altro conflitto controverso, forse a sua volta "superfluo", erano quasi tutti "contro". I film sulla seconda guerra mondiale invece difendevano tutti, accoratamente, l'intervento dell'America e i sacrifici dei suoi figli. Ma allora la connotazione Usa era "liberatori", oggi è (per lo più) "imperialisti".
Tornando all'oggi. Stop Loss non è l'unico film in uscita sull'argomento. Un altro titolo importante è Grace is gone, con John Cusack, per la regia di James C. Strouse. Il film ha avuto un imprimatur rilevante, un premio al Sundance di Robert Redford. Si narra la storia di un uomo che ha visto morire sua moglie in Iraq. Ma basta citare alcuni titoli a campione per suffragare la tendenza critica-con-violenza verso quella guerra. In Jarhead i soldati americani vengono rappresentati come un'accozzaglia di psicopatici isterici. In Three Kings, i militari si rendono conto della condizione disperata in cui una guerra, a difesa degli interessi Usa, ha ridotto il popolo iracheno. In Redacted, De Palma racconta un episodio accaduto: quando un gruppo di soldati americani violentarono una ragazza irachena, la uccisero e sterminarono la sua famiglia. Il regista è inesorabile nell'analisi dei sentimenti in gioco, quelli dei militari dei media e della popolazione irachena. Feroce, spietata, autocritica Usa. Appunto.

Il Vietnam
Gli anni del Vietnam erano quelli del cambiamento. Le scuole, gli artisti, la musica, il cinema, avevano girato pagina. La presa di coscienza dei diritti civili era, in automatico, l'assunzione del pacifismo. Film intensi e di qualità, alcuni sul Vietnam. Platoon, di Stone, è soprattutto un action, racconta la guerra in quel contesto dalle mille trappole. Gli altri sono, quasi sempre, storie di reduci. Il Cacciatore di Cimino mostra il trapasso dalla pace alla guerra, da una festa di nozze alla giungla. E mostra i reduci attoniti, sfatti dai traumi, mutilati e irrecuperabili. In Tornando a casa di Ashby, Jon Voight ha perso le gambe dal bacino. Cerca tuttavia di ritrovare una ragione di vita. Tremendo è il disagio di Tom Cruise, anche lui ridotto su una sedia a rotelle in Nato il 4 luglio. Solo una voce si levava a favore dell'intervento Usa in Estremo Oriente, ed era quella patriottica di John Wayne. Nel suo Berretti verdi Wayne, un colonnello, raccoglie sulla spiaggia un piccolo orfano vietnamita. Lo prende in braccio e gli dice "adesso a te ci penserò io". Era l'ingenuità di un uomo che attribuiva al suo paese (e a se stesso, eroe in tanti film) il ruolo di garante del mondo. Perdonabile. Con Full Metal Jacket, Kubrick detta la sua sintesi autorevole, mostrando l'inutilità tragica di tutto, la dialettica grottesca dei partecipanti. Col Vietnam l'America veniva messa in croce, ma chi piantava i chiodi lo faceva con dolore. Poi, con l'Iraq, l'evoluzione della spirale sentimentale avrebbe trasformato il dolore in rivendicazione, magari in odio.
Il cinema americano, dunque, da decenni si pone come forum attento, attivo e critico rispetto all'azione del governo. Chissà se verrà un tempo in cui la classe dirigente detta sopra, ne prenderà atto. Il cinema non ha la struttura e l'autorevolezza, per dettare una soluzione. Non può fermare le guerre, però se dà un'indicazione, è bene che vi si ponga attenzione.

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