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5x1: Kim Ki-Duk, regista on the road

Prima operaio, poi arruolato in marina, dopo pittore a Parigi. Infine, cineasta a 360°. Nelle sale con Soffio.
di Stefano Cocci

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Il regista che ha fatto innamorare Cannes e Venezia
Kim Ki-Duk (Kim Ki Duk) 20 dicembre 1960, Bongwha (Corea del sud) - 11 Dicembre 2020, Riga (Lettonia).

martedì 28 agosto 2007 - Celebrities

Il regista che ha fatto innamorare Cannes e Venezia
Per lunghi tratti la vita di Kim Ki–Duk sembra un'avventura alla ricerca di se stesso e tanti suoi elementi entrano in quella grande storia fatta di simboli e simbolismo che è il suo cinema. Il regista nasce nel 1960 a Bonghwa, un villaggio di campagna nella provincia del Kyonsang del nord, nella Corea del Sud. La sua famiglia si trasferisce a Seul quando lui ha 9 anni. Qui il piccolo Kim frequenta una scuola di avviamento professionale nel settore agricolo. Sembra l'inizio di una tranquilla e anonima esistenza ai margini delle campagne coreane ma il destino ha altri piani per lui: abbandona la scuola e, dopo aver lavorato in fabbrica, si arruola nei corpi speciali dell'esercito. Sarà sottufficiale; poi, un'improvvisa vocazione religiosa lo porta a trascorrere due anni in una chiesa per i menomati della vista. La sua intenzione è diventare predicatore. Non è finita: la passione per la pittura supera quella per la religione. Partirà, con pochi soldi se non quelli del biglietto aereo alla volta di Parigi per studiare belle arti. Dalla pittura al cinema il passaggio non è breve ma certamente naturale. Ci consegnerà uno dei visionari più amati del nostro tempo. Con Soffio lo ritroviamo in questi giorni nelle sale italiane, dopo l'accoglienza un po' freddina all'ultimo Cannes.

Coccodrillo
È il suo esordio: siamo nel 1996. Per Ki-Duk è un'opera prima che arriva mentre lui è privo di qualsiasi formazione cinematografica, teorica e pratica. La critica definisce il film "assolutamente sbalorditivo". Un senzatetto vive nei pressi del fiume Han, a Seul, aspettando sotto un ponte il corpo dei suicidi, per svuotargli le tasche di tutti i loro averi. Oltre che la vicenda, stupisce il cinema di Ki-Duk, dimostrando la sua grande personalità in alcuni passaggi di libertà assoluta. Il film avrebbe dovuto avere un seguito, The Two Crocodiles, che in fase di lavorazione cambiò titolo in Wild Animals (1997).

Time
Una domanda fondamentale in amore: mi amerai per sempre? La protagonista di Ki-Duk si domanda se la storia con il suo uomo durerà, se sarà in grado di superare la noia e l'abitudine. Ai primi segnali di crisi del rapporto, ricorrerà a una scelta estrema: con l'aiuto di un chirurgo plastico cambierà due volte completamente il suo volto e cercherà di (ri)conquistare il suo amore. Dopo il silenzio di Ferro 3, Time risponde alla esigenza opposta, quella della parola, il racconto della fine di un rapporto, un immaginato - espresso spesso in lunghi dialoghi - che muove i personaggi. Ma alla fine la protagonista è vittima della sua stessa macchinazione, e il trascorrere del tempo ha mietuto un altro amore.

Ferro 3 - La casa vuota
"Siamo tutti case vuote e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi". È Ki-Duk a parlare, mentre il "ferro 3" del titolo è un altro dei tanti simboli che il regista coreano dissemina nelle sue pellicole: si tratta della mazza da golf meno utilizzata dal giocatore, testimone della mancanza da casa. Tae-Suk "vive" in abitazioni momentaneamente vuote, lavando i panni sporchi dei proprietari e aggiustandone gli oggetti rotti. In una di queste vite prese in prestito si imbatte in una giovane donna, Sun-Hwa, che, maltrattata dal marito, fuggirà con lui. L'idillio termina con l'irruzione della morte nella romantica fuga dei due: Tae-Suk finirà in carcere anche se non è la fine della loro storia. È il film del silenzio e della quasi assenza del dialogo ma è anche stato acclamato a Venezia e dalla critica di tutto il mondo.

Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera
Il trascorrere delle stagioni metafora, nemmeno troppo stiracchiata, della vita, per un'opera teorica in cui il regista veste l'abito dello scienziato, del ricercatore che indaga su una malattia, i geni scatenanti e gli enzimi inibitori. In un eremo galleggiante vicino a Taiwan, due monaci, uno anziano l'altro giovane, scambiano prospettive e vedute sulla vita. Le stagioni passano e come fasi della vita segnano l'esperienza di ciascuno. È la classica parabola orientale, scritta con il lessico tipico del regista. Non per tutti.

Soffio
È una storia d'amore ibrida tra una donna borghese tradita dal marito e un condannato a morte che ha tentato il suicidio. Ma è anche una revisione della parabola sulla vita che abbiamo imparato ad amare in Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera. Ki-Duk ama "rimasticare" sempre gli stessi argomenti ma riesce sempre a regalarci qualcosa di inatteso. È stato definito "il regista dell'irrazionale", in Soffio tutto sembra confermare questa definizione: dai fondali della sala degli incontri tra i due, le foto che lei dona a lui, i graffiti sui muri. Tutto si muove in questa direzione ma anche in quella della trasfigurazione definitiva dell'immagine, per un cinema molto, forse troppo personale ma che non smette di affascinare.

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