Uno dei tre grandi del cinema taiwanese (gli altri sono Edward Yang e Tsai Ming-liang), autori così imprescindibili da oscurare un'intera generazione di giovani registi dello stesso Paese, timorosi di ogni possibile comparazione. Pensare a quanto di buono fatto nel cinema dell'Estremo Oriente tra gli ultimi decenni del XX secolo e i primi del successivo e pensare a Hou Hsiao-hsien è un'associazione immediata.
Regista, sceneggiatore, produttore e attore (memorabile l'interpretazione in Taipei Story di Edward Yang); un uomo di cinema a 360 gradi, che ha saputo interpretare le contraddizioni di un Paese incompiuto come la sua Taiwan, nata da una scissione politica con la Cina e vissuta in contrapposizione e dipendenza con la sorella maggiore. Hou nasce in Cina, nel Guangdong, nel 1947, ma la sua famiglia fugge ben presto dalla guerra civile per trovare rifugio a Taiwan.
Debitore in una prima fase di Ozu Yasujiro, Hou porta all'estremo la tecnica del maestro giapponese. La macchina da presa è quasi sempre fissa e collocata all'altezza del tavolo da pranzo, o comunque da un punto che consenta una prospettiva discreta ma onnicomprensiva di quanto avviene all'interno del nucleo familiare. Sono i personaggi ad entrare nell'inquadratura anziché il contrario, e l'uso del fuoricampo e di un montaggio spiazzante, spesso privo di una consecutio logica immediata, arricchisce il linguaggio del regista, agevolando l'effetto di suggestione sullo spettatore.
È negli anni Ottanta che emerge il suo stile in maniera compiuta e in particolare in A Time to Live, a Time to Die (1985), struggente capolavoro del primo periodo che si aggiudica il premio FIPRESCI alla Berlinale. Un affresco privato che diviene osservazione su una generazione lacerata dalle guerre intestine e perseguitata dal rimpianto. Temi che Hou saprà astrarre nell'imponente Città dolente (1989), Leone d'Oro alla 46.ma Mostra del Cinema di Venezia, con protagonista uno straordinario Tony Leung, destinato a divenire il punto di riferimento per Wong Kar-wai e per il cinema d'essai dell'Estremo Oriente. Il viaggio nella tradizione prosegue con Il maestro burattinaio del 1993 - Premio della Giuria a Cannes - e Flowers of Shanghai del 1998, con cast hongkonghese, in cui Hou guarda a Mizoguchi e studia la vita delle cortigiane di un bordello, un microcosmo chiuso rappresentativo di un universo socio-politico in frantumi. Eletto Regista del Decennio da un sondaggio di critici internazionali, assemblato da "Film Comment" e "The Village Voice", Hou si affaccia al nuovo millennio con un sensazionale mutamento nella forma e nella sostanza. Millennium Mambo (2001) omaggia e rielabora il cinema delle luci al neon di Tsai Ming-liang e Wong Kar-wai, svuotando ulteriormente sceneggiatura e contenuto nel proprio stile, in cerca della perfezione visiva: il piano sequenza dei titoli di testa rimane uno dei movimenti di macchina esemplari del cinema recente. La nuova musa si chiama Shu Qi, bellissima attrice sfuggita alla schiavitù della pornografia (come racconterà in un'autobiografia) e donata al cinema d'autore: dopo Millennium Mambo il regista la utilizzerà anche in Three Times (2005) - intreccio di tre storie d'amore con i medesimi attori, collocate in epoche temporalmente differenti - e in The Assassin (2015, miglior regia al Festival di Cannes), primo film wuxiapian di Hou, sontuosa rielaborazione di un genere con più di un rimando al suo vertice assoluto, A Touch of Zen - La fanciulla cavaliere errante (1972) di King Hu.
Del 2007 il suo primo e unico film occidentale, Le voyage du ballon rouge (2007), con Juliette Binoche: un omaggio al film del 1956 di Albert Lamorisse, intriso di cinefilia come lo splendido Café Lumière (2003), dedicato a Ozu Yasujiro e al centenario della nascita del maestro. Nel 2015 dirige The Assassin, ambientato nell'VIII secolo in Cina durante gli ultimi anni della dinastia Tang.